Ieri il Tesoro aveva in previsione l’emissione – o meglio, la riapertura, visto che i titoli erano già sul mercato (collocamento sindacato, vale a dire riservato agli operatori istituzionali), di BTP a 7 anni (€ 10 MD) e a 3 anni (€ 3MD). La classica operazione di “routine”, come spesso se ne fanno durante l’anno (il mese scorso c’era già stata un’operazione praticamente identica, visto che erano stati collocati altri € 8 MD dello stesso titolo trentennale), visto che, tra titoli che arrivano a scadenza, che devono essere “sostituiti”, e nuove emissioni, che si aggiungono alle precedenti, ogni anno si parla di almeno € 350-400 MD di titoli. Con il collocamento di ieri, pur mancando oltre 2 mesi al termine dell’anno, il Tesoro ha già raccolto oltre il 90% di quanto si era prefissato.
Da un punto di vista di “gradimento” del mercato questa sembra essere una fase particolarmente positiva per il nostro debito. La conferma ci arriva da diversi indicatori.
Il primo, il più clamoroso, riguarda l’ammontare delle richieste ricevute. Già il mese scorso si erano avute delle avvisaglie, con una domanda che era arrivata a € 130 MD a fronte, come detto, si “soli” € 8 MD di titoli. Ma questa volta si è andati ben oltre, arrivando a superare i 200 MD (99 MD per il settennale, 107 MD per il trentennale).
Numeri che fanno pensare che per molti il nostro Paese è diventato un “porto sicuro”, che alla “certezza dell’investimento affianca anche opportunità di rendimento che nessun altro è in grado di garantire. Infatti, se andiamo a vedere quanto “rende” il nostro debito, noteremo che si va dal 2,89% a 6 mesi, al 2,74% a 1 anno, 2,56% a 3 anni, 2,95% a 5 anni, 3,57% a 10 anni, 4,32% a 30 anni. Un contributo non da poco arriva dalle varie società di rating (ultime, in ordine di giudizio, S&P e Fitch, con quest’ultima che ha migliorato a “positivo” da “stabile” l’outlook a medio termine.
C’è poi la componente “politica”, come detto in altre occasioni: la “stabilità”, a prescindere dal “colore” politico, è comunque giudicata positivamente, e non si può dire che il nostro Paese non sia diventato ben più stabile rispetto al passato. Aspetto che salta ancora più all’occhio osservando quanto succede a molti nostri Partner, che si trovano in una situazione diametralmente opposta.
Discorso analogo per quanto attiene all’ammontare del debito, ovunque in crescita. Ma più che il termine “assoluto”, oggi forse è il deficit l’elemento a cui gli investitori guardano con maggior attenzione. E noi, a quanto pare, ci stiamo muovendo meglio rispetto ad altri (vd la Francia), con un rapporto in progressivo calo, passato dall’8,1% nel 2022 al 7,2% l’anno scorso, per arrivare al 3,9% quest’anno e “atterrare” al 3,1% l’anno prossimo: certamente ancora superiore al 3% imposto dal patto di stabilità europeo, ma comunque in netto calo.
E, ancora, l’aspetto legato alla nuova finanziaria. Anche in questo caso, non brilliamo certo in puntualità e “creatività” (e sin qui nulla di nuovo). Ma quello che è cambiato è il “contesto” di riferimento: noi magari non abbiamo fatto chissà quali “salti in avanti”, ma, in compenso, altri hanno fatto evidenti “passi indietro”. E questo, per gli investitori, ha un valore: se noi saremo chiamati a mettere mano al “portafogli”, altri saranno chiamati a farlo molto di più di noi, rendendo il clima sociale ancora più difficile e la ripresa, se mai ci sarà, ancora ancora più lenta.
Ma che l’atteggiamento, da parte della business community, nei confronti del nostro Paese, sia cambiato, ce lo dice anche un altro dato: la “componente estera” del nostro debito, infatti, quest’anno è aumentata, senza contare le sottoscrizioni di ieri, di oltre € 75 MD. Un numero che diventa ancora più importante nel momento in cui, come sta accadendo oramai da quasi 2 anni, la BCE sta “alleggerendo” il proprio bilancio, vale a dire sta “ buttando” sul mercato parte del debito europeo acquistato negli anni scorsi per sostenere l’economia (prima limitandosi a non rinnovare i titoli che mano a mano arrivavano a scadenza, poi “piazzando” anche parte di quelli che compongono i propri asset). E’ venuto a mancare un investitore (e che investitore), ma ne stanno arrivando altri. Che, però, e qui sta forse la differenza maggiore, non “investono” nel nostro Paese per “aiutarlo”, spinti da una motivazione istituzionale, ma perché, in questo momento, sta esprimendo numeri (e rendimenti) che rassicurano: ma che, se le cose, da un punto di vista prospettico e puramente “numerico”, dovessero cambiare, come velocemente arrivano, altrettanto velocemente se ne andranno.
Con l’avvicinarsi della scadenza del 5 novembre, affiora, sui mercati, un certo nervosismo. Nulla di particolarmente grave o pericoloso, ma comunque sufficiente a rendere meno nitida la strada.
Ieri, a Wall Street, chiusure incerte, con Dow Jones e S&P 500 appena sotto la pari, e il Nasdaq, invece, frazionalmente positivo (+ 0,11%).
Questa mattina a Tokyo Nikkei a – 0,80%.
Salgono i mercati cinesi: Shanghai + 0,51%, Hang Seng di Hong Kong + 1,17%.
Kospi Seul + 1,28%, mentre “paga pegno” il Taiex di Taiwan (- 0,85%).
Appena debole, a Mumbai, il Sensex (- 0,2%).
Futures poco mossi, comunque in leggero ribasso.
Petrolio anche ieri in recupero, anche se questa mattina prevalgono le vendite (WTI $ 71,28, – 0,74%).
Gas naturale Usa $ 2,299 (- 0,69%).
Oro sempre più in alto, “all’attacco” dei $ 2.800 (2.765, + 0,11% questa mattina).
Spread sui livelli di ieri (123 bp).
BTP al 3,56%.
Bund 2,33%.
Treasury venduti anche questa mattina in Asia, con il rendimento che sale al 4,236% (vale lo stesso discorso fatto per i mercati azionari, con gli investitori, in questo caso, preoccupati dall’impatto negativo che le presidenziali americani potrebbero avere sul debito del Paese, visto, chiunque sarà il vincitore, in aumento, a maggior ragione se a prevalere fosse Trump, con la sua propaganda populista “First America”).
€/$ a 1,0796, con il $ sempre più in auge (quindi il paradosso è “timore sul debito Usa, ma non sulla tenuta dell’America”: si vendono Treasuries ma si comprano $).
Bitcoin a $ 67.235, sui valori di ieri.
Ps: se c’è uno sport dove la “statura” conta, questo è il basket (ma anche nella pallavolo non si scherza). Ma, grazie al cielo, non c’è una norma che preveda “l’altezza minima”. Ecco, quindi, che nell’NBA (e quindi nel pianeta dove “si vedono cose che voi umani non potete immaginare”) succede che nella stessa squadra (Memphis) siano compagni di squadra il giocatore più alto del torneo (Zach Edey, mt 2,24) e quello più basso (Yuki Kawamura, certamente un cognome non propriamente “yankee”, alto “appena” mt 1,73, comunque in grado di segnare 29 punti con la sua squadra, il Giappone, contro la Francia nell’ultimo torneo olimpico). E non è neanche il più basso tra i giocatori che hanno giocato nell’NBA: tra il 1987 e il 2001, infatti, nella squadra di Washington ha giocato Muggy Bogues, alto (o basso) mt 1,60. Dalla sua, però, credo avesse l’elevazione…